DIAGNOSI DELLE ALLERGIE/INTOLLERANZE ALIMENTARI
IgE / non IgE mediate
L’approccio
diagnostico a un paziente con una sospetta reazione avversa comincia
attraverso una raccolta della storia clinica seguita da un esame fisico.
Sulla base delle informazioni ricavate, ci si può servire di test di
laboratorio in grado di indirizzare il medico verso la diagnosi. In
verità i test allergologici da soli non possono diagnosticare una
malattia allergica, ma, solo definire la presenza/assenza di anticorpi
specifici per un determinato allergene. Sarà sempre l’associazione tra
questi risultati e le manifestazioni cliniche a permettere la definizione
di una diagnosi. Il rapporto cibo/reazioni avverse è in larga misura
legato a ciò che il paziente riferisce sulla sintomatologia, e l’abilità
del medico sta nell’andare a discernere i disordini provocati realmente
da una ipersensibilità a un cibo da quelli di eziologia differente. La
storia è di indubbia utilità nella diagnosi di allergia alimentare
IgE-mediata in cui l’evento acuto di natura allergica si scatena in breve
tempo, da pochi secondi a qualche minuto dall’ingestione isolata di un
cibo. La storia clinica diventa di difficile interpretazione, invece,
nei casi di allergia non-IgE-mediata in cui la sintomatologia non è nel
breve tempo correlabile alla ingestione di uno specifico cibo. Qualsiasi
cibo può causare una reazione allergica ma solo pochi di questi sono
responsabili del 90% di tutte le reazioni. Nei bambini, in cui
l’incidenza dell’allergia alimentare è intorno al 6%, i cibi maggiormente
coinvolti sono le uova, il latte, le arachidi, la soia e la farina (pesce
nei paesi scandinavi) mentre negli adulti i cibi più interessati sono
vari tipi di frutta, noccioline, verdure e legumi.
Test
Diagnostici in vitro
Test citotossico. Tra i metodi diagnostici utilizzati nella
diagnosi delle reazioni avverse al cibo, il Cytotoxic test fu uno dei
primi ad essere adottati, e ancora oggi rappresenta uno dei test più
adoperati nel laboratorio per lo studio delle intolleranze alimentari.
Il test oggi viene esclusivamente
impiegato per evidenziare ipersensibilità alimentari non-IgE-mediate.
L’esatto meccanismo d’azione del test non è stato ancora riconosciuto
anche se è plausibile pensare all’intervento di reazioni sia bio-umorali
che cellulari nel determinismo della reazione citotossica.
Il test
consiste nel prelevare dal paziente 5 ml di sangue venoso che va
trasferito in una provetta contenente l’anticoagulante citrato di sodio;
si procede a centrifugare il campione, quindi si preleva lo strato surnatante (contenente leucociti e piastrine) e lo si combina col siero.
Ne viene posta una quantità controllata su un vetrino, all’interno di
pozzetti contenenti una quantità prestabilita di estratti alimentari.
Infine con un vetrino-coprioggetto si isola il pozzetto subito dopo
l’aggiunta del campione di sangue pre-trattato. Dopo un periodo di
incubazione di 15-30 minuti si passa all’osservazione del vetrino al
microscopio. Benchè siano presi in considerazione anche gli effetti sui
globuli rossi e sulle piastrine, il parametro senz’altro più importante è
l’osservazione di eventuali modificazioni strutturali citoplasmatiche a
carico dei leucociti.
I risultati vengono quantificati su una scala che va da uno a quattro, a
seconda della gravità della reazione:
Primo grado. Normali
Secondo grado. Reazione moderata (aumento del volume cellulare con
aspetto tondeggiante);
Terzo grado. Reazione grave (interruzione della membrana citoplasmatica cellulare);
Quarto grado. Reazione estrema (disgregazione della cellula)
Tra i vantaggi del cytotest bisogna
sottolineare la multifattorialità della reazione poichè dipende dai
meccanismi sia cellulari sia del siero, perciò si presume che rifletta i
fenomeni in vitro più accuratamente rispetto ai test che dipendono dalla
reazione dei soli anticorpi.
Senz’altro sarebbero necessarie ulteriori
ricerche sui vari aspetti del test citotossico per migliorarne l’attendibilità
che oggi si aggira intorno al 75-80%. Studi nuovi e su larga scala
necessitano comunque di essere pubblicati per valutare l’efficacia del
test che una parte di ricercatori critica per la mancanza di
riproducibilità. Tali critiche infatti sono fondate su studi che
risalgono a molti anni addietro, quando la tecnica non era stata ancora
ben standardizzata.
Gli alimenti che hanno mostrato una positività al cytotest devono essere esclusi per un periodo variabile a seconda del
grado di reazione. Il test citotossico è stato studiato in diversi
ospedali, soprattutto italiani, per valutare la correlazione tra
ipersensibilità agli alimenti e patologie differenti.
RAST (Radioallergosorbent test) è il test diagnostico utilizzato
per ricercare su sangue anticorpi IgE contro specifici alimenti.
Le
informazioni ricavate da tale test sono piuttosto simili a quelle fornite
dallo skin test e analogamente a questo il RAST ha un alto valore
prognostico negativo o NPV (compreso tra 82 e 100%), e un basso valore
prognostico positivo o PPV (tra 25 e 75%).
E’ possibile che uno skin
test sia negativo o gli anticorpi IgE specifici circolanti non siano
rilevabili nonostante un’anamnesi chiara. Questi anticorpi infatti
potrebbero essere diretti contro allergeni che vengono evidenziati od
alterati durante i processi di preparazione industriale, di cottura o di
digestione e che pertanto non sono presenti nell’alimento allo stato
naturale per il quale viene eseguito il test. Inoltre il test di
rilevazione delle IgE specifiche, specie per allergeni alimentari, può
essere disturbato dalla presenza nel campione di anticorpi di classe IgG
che competono per l’allergene.
IgG e sottoclassi. Sebbene molti studi
suggeriscono che la produzione di IgG e IgG4 potrebbe far parte di una
normale risposta immunologica agli allergeni alimentari, altri studi
hanno dimostrato che i livelli di IgG4 nel siero sono elevati nei
pazienti con una storia di allergia alimentare o di Sindrome
dell’intestino irritabile. Ma l’esatto ruolo patogenetico delle IgG4
nelle forme di allergie alimentari non-IgE-mediate, non è stato ancora
riconosciuto.
In particolare è stato dimostrato in soggetti atopici, con
ipersensibilità verso le proteine del latte e della soia, una forte
reattività IgG4-mediata. El Rafaei et al., hanno calcolato le
concentrazioni di entrambe le classi anticorpali IgE e IgG4 in 25
soggetti con storia positiva di allergia alimentare valutata attraverso
la metodica dello scatenamento orale in doppio cieco controllato (DBPCFC).
I risultati hanno mostrato un aumento nel siero delle IgG4 e delle IgE
nel 91% dei pazienti contro la positività delle sole IgG4 o IgE nel 62%
dei soggetti allergici. Simili risultati sono stati ottenuti in altri
studi. Questi dati suggeriscono la possibilità di ricercare entrambi gli
anticorpi IgE e IgG4 specifici per valutare soggetti con sospetta
allergia alimentare.
Studi recenti evidenziano infine come in un
sottogruppo di soggetti con sindrome dell’intestino irritabile vi sia un
aumento specifico di IgG4 contro specifici alimenti che una volta
eliminati dalla dieta determinano un miglioramento della sintomatologia.
Questi dati delineano un importante utilità diagnostica delle IgG4 come
markers di ipersensibilità al cibo non-IgE-mediata nei soggetti con
sindrome dell’intestino irritabile.
Test Diagnostici in vivo
Prick skin test è un test che permette di effettuare uno
screening nei pazienti con sospetta allergia IgE-mediata. Il test
consiste nell’inoculare una data concentrazione di estratto purificato
dell’allergene indagato, come pure di due piccole quantità di sostanza
controllo (soluzione salina ed istamina) sulla superficie volare
dell’avambraccio. Dopo circa 15-20 minuti si deve valutare la presenza di
reazioni cliniche (eritema e pomfi) nell’area interessata. Il test viene
considerarto positivo quando è presente un pomfo con diametro di almeno
3mm maggiore rispetto al controllo negativo (soluzione salina). Questo
metodo viene utilizzato sia nell’ambito dell’allergia alimentare che
degli inalanti ambientali. Tuttavia, il solo prick test positivo a un
alimento indica la possibilità che un soggetto possa avere una reazione
clinica ad un particolare alimento; ovvero non costituisce un criterio di
certezza. Invece uno skin test negativo conferma l’assenza di allergia
alimentare con un valore predittivo negativo maggiore del 95% dei casi.
In definitiva possiamo considerare il prick test un metodo valido per
escludere reazioni IgE-mediate, mentre è solo “suggestivo” di allergia
alimentare clinicamente evidente in caso di positività. I prick test per
alimenti assumono quindi un valore diagnostico maggiore quando sono
negativi: infatti è molto raro che un paziente presenti allergia
alimentare in presenza di una risposta negativa al prick test, anche se
ciò è possibile.
Sulla base dei risultati ottenuti in studi presenti in
letteratura, è stato possibile calcolare la validità predittiva del prick
test nell’allergia alimentare: il Valore Predittivo Positivo (PPV) è
inferiore al 50% mentre il Valore Predittivo Negativo (NPV) è maggiore
del 95%. Questi valori sono stati ottenuti dal confronto con quello che è
il gold standard nella diagnosi di allergia alimentare, ovvero il test di
scatenamento orale in doppio cieco con placebo (DBPCFC) dopo dieta di
eliminazione.
DBPCFC (Double blind placebo
controlled food challenge). Lo scatenamento in doppio cieco
controllato contro placebo fu introdotto nel 1976 da May ed è considerato
da allora, il metodo “gold standard” per accertare o escludere
un’allergia alimentare. Questo metodo può essere utilizzato anche per
ragioni scientifiche in trials clinici o per determinare il valore soglia
o il grado di sensibilità/tollerabilità verso un cibo. Il DBPCFC è utile
anche per studiare casi di discrepanza tra storia clinica e risultati
dei test in vivo e/o in vitro e infine per valutare sintomi cronici
sospettati essere correlati all’introduzione di specifici alimenti.
Dopo
una/due settimane di sospensione dalla dieta degli alimenti sospetti, il
soggetto riceve la somministrazione di un singolo alimento sotto forma di
capsule opache che contengono cibo generalmente liofilizzato. Similmente
il placebo è costituito da una capsula apparentemente uguale ma al cui
interno si trova generalmente destrosio, o altri cibi che si sa con
certezza essere tollerati dal paziente.
La dose iniziale somministrata
(che varia per ogni singolo alimento) viene raddoppiata a intervalli
prefissati, fino a raggiungere gli 8-10 g di sostanza. Quando il paziente
tollera questa concentrazione di cibo liofilizzato, lo studio viene
continuato in aperto per un’ulteriore conferma. La metodica necessita
comunque di essere standardizzata, infatti non esistono ancora dati certi
in merito al tempo che deve seguire tra due somministrazioni o le
concentrazione delle stesse.
COMMENTO FINALE
Nelle ipersensibilità agli alimenti non-IgE-mediate, non esistono test o marker di laboratorio sicuri in
grado di svelare reazioni allergiche di tipo ritardato. Per tale ragione
l’eliminazione del cibo dalla dieta seguita dallo scatenamento orale,
secondo la modalità del DBPCFC, rappresenta il solo metodo in grado di
accertare o escludere un’ipersensibilità non-IgE-mediata verso un
alimento. Ma il problema di fondo è che questo tipo di reazione risponde
ad una logica diversa da quella delle allergie IgE-mediate: non è una
reazione immediata, ma di tipo ritardato, chiamata anche reazione di
“accumulo”. Sampson infatti ha recentemente confermato che la positività
di risposta al test aumenta se il test viene ripetuto per tre giorni
consecutivi.
Tuttavia, a causa del costante aumento di disturbi
alimentari di tipo non IgE mediato non facilmente identificabili con lo
scatenamento orale, urge mettere a punto nuovi test di laboratorio in vitro
nella ricerca dell'intolleranza alimentare, specifici e affidabili, al
fine di individuare con certezza e sicurezza i cibi
responsabili di reazioni patologiche non IgE mediate.